Le maschere piemontesi tra storia e leggenda
- In ogni leggenda che si rispetti compare la figura
del tiranno bieco e sanguisuga che opprime i suoi sudditi con tasse, leggi
improponibili e altre poco edificanti richieste.
Altro protagonista
fondamentale è l'eroe, l'uomo che esce dalla massa e si ribella. Ovviamente
le leggende sono, quasi sempre, a lieto fine: il coraggioso popolano scaccia
dal paese,
o dal mondo dei vivi, il terribile despota e la gente s'abbandona
a feste lunghe almeno quanto un "rave party".
Queste figure non nascono solo dalla fantasia, ma spesso traggono spunto
da eventi storici particolarmente memorabili e con il passare degli anni, o
per meglio dire "dei secoli",
i buoni e i cattivi diventano dei miti che
continuano ad essere celebrati, soprattutto a carnevale. Alcune delle più
note maschere piemontesi, infatti,
s'ispirano proprio a questi personaggi.
Non sempre, però, l'eroe è un uomo. L'esempio più noto in terra subalpina è
la Mugnaia del carnevale del Ivrea,
che racchiude in sé lo
spirito di libertà.
La leggenda narra che nel Medioevo il tiranno della città esigesse dalle
novelle spose lo "jus primae noctis" e fu proprio nella sua prima notte di
nozze che Violetta, la Mugnaia,
salì al Castellazzo. Dove, invece di
sottomettersi ai desideri del lascivo conte, gli tagliò la testa che poi
esibì al popolo radunato sotto le mura.
Così nacque la rivolta contro
violenze e soprusi, e un mito tutto al femminile che si tramanda d'anno in
anno ad ogni carnevale (inizio il 6 gennaio e "funerale" il martedì grasso.
Fra le due date, un ricco programma d'eventi in cui spiccano i giorni dal 24
al 27 febbraio: il sabato, la fiaccolata goliardica per le vie della città
precede i tre giorni in cui si
scatenerà la celebre "battaglia delle
arance")
Il più importante personaggio maschile che affianca Violetta è il
Generale, la cui storia è fortemente legata ai festeggiamenti di questi
giorni. Pare, infatti, che durante
la dominazione francese un cittadino
eporediese venisse investito della massima autorità militare con il compito
di presiedere al primo carnevale della città che univa i
cinque carnevali
rionali. Si cercava in questo modo di porre fine agli scontri che
scoppiavano, durante la manifestazione, nella città.
Altri significativi simboli della rivolta popolare si trovano nelle
maschere del Carnevale Storico di Santhià. Si tratta di
Stevulin 'dla Plisera
(una cascina tuttora esistente ai confini con Tronzano
Vercellese) e Majutin dal Pampardu (altra cascina esistente nei pressi della
frazione Brianco di Salussola),
una coppia di contadini freschi di
matrimonio, simbolo della detronizzazione del signorotto locale e del
conseguente innalzamento in libero comune del borgo di Santhià.
Spostandosi a Vercelli s'incontrano altre due celebri maschere:
il Bicciolano e la Bela Majin.
L'origine del Bicciolano risale, pure in questo caso con un intreccio
tra
storia e leggenda, ad un personaggio che sarebbe vissuto nella città a
cavallo tra il 1700 e il 1800. Si tratta di Carlin Belletti, figura cui si
legano ideali come la rivolta
contro i soprusi, il ripudio delle angherie,
la ricerca di un ordine nuovo, più pulito, più sano, più efficiente: un
ordine dove tutti gli uomini siano liberi e rispettati.
Di Carlin Belletti, detto il "Bicciolano", si narra che fosse spiritoso,
intelligente e pungente. Le sue eroiche gesta risalgono a quando la
rivoluzione francese batteva
alle porte del Piemonte, e Vercelli era
governata da una classe privilegiata che imponeva gravi tassazioni alla
popolazione e spadroneggiava indisturbata in città.
Il nostro eroe era
l'impavido portavoce dello scontento popolare.
Ancora oggi, la maschera vercellese è una figura vicina alla gente comune.
Se nell'800 era il simbolo di rivolta e libertà, ora il Bicciolano
rappresenta la ribellione ai vincoli,
alle consuetudini e alle inibizioni
della quotidianità. La sua sposa, la "Bela Majin", era una donna di estrema
bellezza e si narra fosse una compagna intelligente,
colta e capace di
intervenire sempre, e giustamente, nei momenti opportuni.
Di
natura diversa è la maschera più rappresentativa del Piemonte:
Gianduia, rubizza figura che pare debba il suo nome ad un
curioso personaggio
un tempo residente nell'astigiano. A Callianetto,
infatti, viveva un certo Giöan d'la douja (Giovanni del boccale) così
chiamato perché in qualunque
osteria entrasse chiedeva un boccale di vino.
Il signor Giovanni era un contadino simpatico, bonaccione, schietto e furbo.
L'amore per il vino gli conferiva
un colorito acceso e, probabilmente, un
gusto particolare nel vestire: farsettone viola e brache di fustagno, un
tricorno calato in testa,
da cui spuntava un codino di capelli.
Così è nato Gianduia con il suo costume di panno color marrone bordato di
rosso, il panciotto giallo, le calze rosse, il fiocco verde oliva al collo e
un ombrello sempre dello stesso colore. Gianduia non è un eroe, non ha lo
spirito battagliero. E' semplicemente un galantuomo cui piacciono il vino,
la buona tavola, l'allegria e la vivacità paesana. Possiede, però, un'arma
potente: la satira, con cui sa cogliere il lato comico e ridicolo delle cose
e delle persone.
La maschera riassume in sé i caratteri attribuiti al popolo
piemontese: è conservatore (bôgianèn), ma di ottimo umore, furbo e
fine sotto l'apparenza di
ingenuità e ruvidezza, allegro, ma fedele al
dovere ed alla parola data.
La sua compagna è Giacometta, donna coraggiosa e pratica, semplice ma
capace di risolvere tutte le situazioni con il suo innato buonsenso.
Il suo
abbigliamento è composto di un abito rosso con sopra un grembiule bianco, al
collo un fazzoletto verde, sul capo un cappello giallo legato con un nastro
rosso,
calze nere e scarpe gialle.
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